Il nuovo film di Luca Guadagnino ha ricevuto il plauso della critica in tutti i festival in cui è stato presentato, a partire dal Sundance Film Festival, e ha fatto il pieno di candidature e riconoscimenti in questa stagione di premi. Un successo più che meritato per Call Me by Your Name (Chiamami col tuo nome), a maggior ragione perché non del tutto scontato.
Il film racconta l’educazione sentimentale e sessuale del diciassettenne Elio (Timothée Chalamet) nell’estate del 1983. Il giovane prende infatti coscienza di sé quando suo padre, il professor Perlman (Michael Stuhlbarg), invita uno studente americano, Oliver (Armie Hammer), presso la villa di famiglia nel Cremasco per aiutarlo ad ultimare la tesi di post-dottorato.
Quella raccontata da Call Me by Your Name è una storia d‘amore universale: il rapporto tra Elio e Oliver rappresenta il primo amore di ciascuno di noi, con le sue eccitazioni e insicurezze. Difatti, entrambi i protagonisti – ma in particolare Elio – faticano a comprendere loro stessi e a dare un nome ai propri sentimenti.
In effetti, il film di Guadagnino è fatto anche di attese e silenzi ed è per questo che, in un certo senso, risulta a tratti logorante. Infatti, Call Me by Your Name mostra lentamente la crescita dell’interesse che Oliver e Elio nutrono reciprocamente, per arrivare al climax a più di un’ora dall’inizio. Forse, per mantenere viva l’attenzione dello spettatore, sarebbe stato meglio non dilungarsi troppo sui sentimenti repressi dai due protagonisti, ma tutto sommato le aspettative vengono ampiamente ripagate e, per certi versi, probabilmente è proprio l’attesa estenuante che fa apprezzare a pieno il resto del film.
La macchina da presa segue i movimenti degli attori nello spazio, attraverso numerosi long take. La regia di Guadagnino è caratterizzata da originali inquadrature fuori fuoco e campi medio-lunghi, anche nelle scene che convenzionalmente avrebbero richiesto dei primi piani degli attori. Inoltre, il regista si sofferma anche sugli elementi scenografici o sulle parti del corpo. La passeggiata in bicicletta di Elio e Oliver ricorda Il giardino dei Finzi-Contini di De Sica e, più specificatamente, quella di Port e Kit ne Il tè nel deserto di Bernardo Bertolucci.
A pensarci bene, direi che tutto il film in qualche modo è un omaggio al cinema di Bertolucci: per l’importanza che riveste lo spazio, per la rappresentazione del desiderio, e per come i corpi dei personaggi vengono ripresi, seppur in maniera meno provocatoria. Le statue che Oliver e il professor Perlman si trovano a catalogare sono caratterizzate da corpi statuari, “impossibilmente curvi” ma che “ti sfidano a desiderarli”, dunque anche i corpi dei giovani protagonisti vengono minuziosamente analizzati dall’occhio della cinepresa come se fossero delle opere d’arte.
La sceneggiatura firmata da James Ivory è sofisticata quanto il libro di André Aciman da cui è tratta. Nessuna scena risulta fuori luogo o forzata, ma sono tutte molto poetiche. Piuttosto che sui dialoghi, la sceneggiatura sembra reggersi sulle descrizioni delle azioni dei personaggi; per questo erano necessari dei buoni attori, in grado di dare un’interpretazione a 360°.
E così è stato. I magnetici Timothée Chalamet e Armie Hammer sono molto spontanei e di una dolcezza disarmante. Chalamet interpreta Elio, la parte più inesperta ma allo stesso tempo precoce, mentre Oliver (Hammer) è più consapevole e maturo, ma non per questo meno insicuro. Anche se ad oggi la critica ha lodato maggiormente l’interpretazione di Timothée Chalamet, entrambe le prove attoriali sono molto convincenti ed è difficile analizzarle separatamente. I due attori mostrano di avere una bella chimica sullo schermo e insieme risultano decisamente credibili.
La passione erotica tra Elio e Oliver è supportata anche dall’estate torrida e assolata, esaltata dalla fotografia avvolgente e sensuale di Sayombhu Mukdeeprom. Se il libro/film fosse stato ambientato in un’altra stagione, per esempio in inverno, non avrebbe funzionato allo stesso modo.
L’ambientazione nell’Italia degli anni ottanta è precisa e decisamente azzeccata. La colonna sonora è caratterizzata soprattutto da delicati pezzi al piano, ma anche da canzoni pop che ci immergono maggiormente nel clima dell’epoca, nonché da due brani inediti scritti da Sufjan Stevens, Mystery of Love e Visions of Gideon. Anche se sarebbe una scelta insolita da parte dell’Academy, non mi dispiacerebbe se una delle due canzoni vincesse l’ambita statuetta.
Call Me By your Name è struggente, intenso, delicato. Come afferma il padre di Elio (un misurato Michael Stuhlbarg) nel monologo in cui è racchiuso il senso di tutto il film, bisogna fare tesoro della nostra tristezza, ma anche della gioia, e effettivamente Call Me by your Name suscita entrambe queste emozioni.
Una pellicola che, anche se non ci risparmia dal provare dolore, fa bene al cuore.
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