Dogman – La recensione


2016 - 2019, Recensioni / domenica, Maggio 27th, 2018

Consenso unanime al Festival di Cannes 2018 per Dogman, con il vincitore della Palma d’Oro Marcello Fonte: l’ultimo film di Matteo Garrone è un esempio di grande cinema, insieme violento e poetico.

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Il film è una libera rivisitazione di un fatto di cronaca nera avvenuto negli anni ’80 a Roma. È bene sottolineare il termine rivisitazione, altrimenti si potrebbe pensare di essere difronte a un film cronachistico.

Marcello (Marcello Fonte) è un uomo votato all’amore, per i cani di cui si prende cura nella sua toelettatura e per la figlia, con la quale si diletta a fare immersioni in mare; è ben voluto dai commercianti della zona, se non che spaccia cocaina all’ex pugile Simone (Edoardo Pesce), la testa calda del quartiere. Il fulcro del racconto è proprio il rapporto tra Marcello e Simone, che inizialmente sembra un rapporto d’amicizia, ma ben presto si rivela essere un rapporto di intimidazione e sottomissione, dove Simone rappresenta il carnefice e Marcello la vittima.

Con Dogman, Matteo Garrone ci riporta al cinema di Pasolini e del Neorealismo, già recuperato recentemente da Claudio Caligari (Non essere cattivo) e, in parte, da Lo chiamavano Jeeg Robot di Gabriele Mainetti. In questi film i personaggi sono degli sconfitti, e la periferia viene rappresentata in tutta la sua squallida e poetica decadenza. È proprio dal contrasto tra violenza e dolcezza che Dogman, pur nella sua semplice fattura, colpisce lo spettatore allo stomaco. I personaggi portati sullo schermo da Garrone sono persone semplici, che hanno emozioni e motivazioni altrettanto semplici. Ma spesso, dietro alla semplicità, si nasconde un pensiero molto profondo.

Come avvertivo precedentemente, Garrone si è fatto ispirare dal caso del Canaro, usandolo come pretesto per parlare di oppressione e sopravvivenza, del conflitto interiore tra bene e male.

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In un crescendo di violenza psicologica e fisica, il rapporto tra Marcello e Simone può essere paragonato metaforicamente a quello tra cane e padrone. All’inizio del film è Simone ad essere assimilato ad un cane – “un cane sciolto”, come lo definisce il proprietario del Compro Oro interpretato da Adamo Dionisi – e torna ad esserlo nel finale. Per il resto del film è lui il padrone e Marcello il cane. Marcello è docile e fedele, fa la guardia durante le rapine del suo “padrone” e non lo tradisce neanche quando gli si prospetta la reclusione, ma all’ennesima provocazione inizia a fare i dispetti, diventa aggressivo, per poi tornare ad abbassare il capo e chiedere scusa. Questa credo che sia la principale suggestione che il caso del toelettatore di cani ha suscitato nel regista Matteo Garrone.

Marcello e Simone vengono contrapposti anche fisicamente: l’uno esile e ricurvo, quasi servile, l’altro alto e robusto. Tali caratteristiche fisiche dicono molto sulla loro caratterizzazione psicologica.

Simone è un bullo che si impone in un sistema dove vige la legge del più forte. Marcello è un uomo buono che, seguendo l’innato istinto di sopravvivenza, finisce per diventare il carnefice del suo carnefice, senza tuttavia tradire la sua natura.

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“La mia immagine del ‘Canaro’ della Magliana? Un Cristo che porta la croce”. – Matteo Garrone

L’immagine di Marcello che si carica sulle spalle il cadavere di Simone è quasi religiosa e onirica, ma anche tremendamente amara. Marcello pensa di aver liberato se stesso e la sua comunità dalla presenza ingombrante di Simone ma è in realtà ancora prigioniero, “ingabbiato” in un contesto che non permette nessun tipo di riscatto. Marcello, che sembra un personaggio uscito da un romanzo di Verga, è un vero vinto dalla vita e lo spettatore non può che provare pena per lui.

L’interpretazione di Marcello Fonte è meravigliosa: dal suo sguardo ora candido ora sfuggente, prende vita un ventaglio di emozioni umane, reali, di una tenerezza disarmante. Clamorosa la trasformazione di Edoardo Pesce, irriconoscibile nei panni di Simone. Matteo Garrone gira per lo più in piano sequenza, realizzando primi piani strettissimi sui volti dei protagonisti, quasi per leggere dentro il loro sguardo, e alcuni campi lunghi dove i personaggi sono sovrastati dai palazzi fatiscenti di una periferia quasi post-bellica, da far west.

Sebbene ci siano molte immagini suggestive, come le sequenze sott’acqua o nel finale, Dogman non è un film poetico in sé per sé, quanto piuttosto una pellicola che si fonda su una visione poetica. Garrone è riuscito a rivisitare un macabro fatto di cronaca in una profonda indagine sull’animo umano e sulle dinamiche dell’isolamento sociale, realizzando con grande sensibilità un film doloroso, che scava dentro ognuno di noi.

6 Commenti a “Dogman – La recensione”

  1. Ho visto il film giusto ieri sera e ho fatto un salto sul tuo blog per vedere se lo avevi recensito ed eccoci qui. Il tuo commento alla pellicola mi è piaciuto molto ( come sempre ); invece per quanto riguarda il mio parere personale mi ha lasciato soddisfatta a metà. Non saprei neanche spiegare bene il perché onestamente. L’ho trovato molto amaro, come dici tu sembra riallacciarsi al crudele ‘ideale dell’ostrica’ di Verga e della corrente del verismo. Ho apprezzato la riflessione che apre riguardante la natura umana e la zona d’ombra che anche la persona più buona cova dentro di sé e quanto in là possono spingersi la violenza e le vessazioni prima di far traboccare il vaso. Attori ineccepibili e fotografia splendida.

      1. Allora te lo consiglio caldamente. Tra l’altro ne ho parlato nel mio ultimo post, in cui ho condiviso anche i miei ricordi d’infanzia più belli… spero che ti piaccia! 🙂

  2. […] Dogman di Matteo Garrone è stato – meritatamente – il film più premiato di questa edizione, con ben 8 riconoscimenti nelle categorie principali. Quattro invece i Nastri d’Argento assegnati a Loro di Paolo Sorrentino. Premiati anche Chiamami col tuo nome e Ammore e Malavita, rispettivamente con uno e due premi. […]

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