La Stanza delle Meraviglie – La recensione


2016 - 2019, Recensioni / martedì, Agosto 7th, 2018

Presentato al Festival di Cannes 2017, Wonderstruck (La stanza delle meraviglie) è un film di formazione adatto a tutte le età, per la delicatezza con la quale vengono affrontati alcuni temi affatto semplici, e per il folgorante aspetto visivo.

Il film di Todd Haynes racconta due storie, distanti nel tempo ma simili nel contenuto e, come si scoprirà, destinate a ricongiungersi. I protagonisti di tali vicende sono i dodicenni Ben (Oakes Fegley) e Rose (Millicent Simmonds).

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Sia Ben che Rose intraprendono un viaggio in solitaria verso New York, ma le motivazioni per cui decidono di partire sono diverse, così come distante è il momento in cui compiono questo viaggio. Ben parte nel 1977 alla ricerca di notizie sul padre che non ha mai conosciuto; il viaggio di Rose avviene invece nel 1927 e ha come obiettivo il riuscire ad incontrare il suo mito, l’attrice interpretata da Julianne Moore. A rendere simili Ben e Rose, oltre alla quasi medesima avventura che decidono di intraprendere, c’è poi anche un’altra caratteristica: entrambi sono sordi. Il primo lo è diventato in seguito ad un incidente, mentre la seconda lo è dalla nascita.

Si può paragonare La stanza delle meraviglie a Hugo Cabret di Martin Scorsese. In primo luogo perché l’autore delle graphic novel da cui i film sono tratti è lo stesso (Brian Selznick, che nel caso di Wonderstruck è anche sceneggiatore). In secondo luogo, perché entrambi mostrano la volontà di veicolare un contenuto piuttosto semplice, ma non banale, attraverso tecniche e registri visivi stupefacenti, e – in parte – di rappresentare sullo schermo il cinema stesso. Infatti, la storia che ci racconta La stanza delle meraviglie non è certo innovativa e neanche particolarmente inconfondibile. Quello che invece è memorabile è come Todd Haynes abbia deciso di raccontarla. Il regista americano, infatti, gioca con i generi e utilizza gli strumenti del cinema per arricchire la narrazione.

Nel passare da un’epoca all’altra, sempre in relazione tra loro attraverso il montaggio, Haynes si aiuta anche e soprattutto con la musica. La colonna sonora fa spesso da collegamento significante tra le due linee temporali, ma non si limita solo a questo. Il sonoro infatti diviene un mezzo narrativo autonomo nel mettere in relazione il pubblico con la sordità dei due protagonisti. Non è un caso che la storia di Rose, sorda dalla nascita, sia raccontata attraverso il muto: con questo espediente – che vuole essere anche un omaggio al cinema dell’epoca, ma di questo parlerò più avanti – il regista rende la rappresentazione più simile alla realtà del personaggio, realtà nella quale nessun suono è ammesso. Al contrario, Ben è circondato dai suoni che egli stesso avrebbe sentito se non avesse avuto l’incidente.

Alla stessa maniera, anche la fotografia diviene uno strumento narrativo. L’alternanza tra i due momenti storici narrati è segnata tramite il passaggio dal bianco e nero degli anni Venti ai colori acidi degli anni Settanta. Last but not least, anche i costumi caratterizzano diversamente e in modo adeguato le due epoche di ambientazione.

Come accennavo poco più sopra, con Wonderstruck Haynes compie un atto d’amore verso la settima arte, non soltanto perché sfrutta al massimo della loro potenzialità molti degli strumenti che spesso vengono invece trascurati in film del genere (vedi il sonoro), ma anche perché omaggia il modo di fare cinema degli anni Venti e Settanta: nel primo caso, ricorrendo all’escamotage del muto e attraverso la colonna sonora che, proprio come in un film muto, accompagna tutte le scene e sembra eseguita dal vivo; nel secondo, guardando soprattutto ai film fantascientifici e d’avventura prodotti in quegli anni. In aggiunta, gran parte del film è stato girato all’interno del Museo di Storia Naturale di New York, e dunque anche gli appassionati di scienze naturali possono restare soddisfatti dalla visione di quest’opera.

Nonostante il curatissimo aspetto visivo – senza il quale probabilmente Wonderstruck sarebbe stato più dimenticabile – la narrazione procede a tratti un po’ troppo lentamente. Nel complesso, Haynes è comunque riuscito a gestire lo squilibrio tra forma e contenuto, creando un piccolo film pieno d’amore per l’arte cinematografica.