L’Isola dei cani – La recensione


2016 - 2019, Recensioni / martedì, Agosto 14th, 2018

Vorrei vivere in un film di Wes Anderson: inquadrature simmetriche e poi partono i Kinks. Vorrei l’amore dei film di Wes Anderson, tutto tenerezza e finali agrodolci.
E i cattivi non sono cattivi davvero. E i nemici non sono nemici davvero. Ma anche i buoni non sono buoni davvero, proprio come me e te.

L’Isola dei cani, il film con cui Wes Anderson ha vinto l’Orso d’Argento al Festival di Berlino 2018, è una fiaba tradizionale, visivamente irresistibile.

Giappone, Megasaki City, 2037. A causa dell’aumento incontrollato dei cani e della diffusione di una misteriosa “influenza canina”, il sindaco Kobayashi, amante dei gatti, prende la drastica decisone di mettere in quarantena tutti i cani del Paese, segregandoli nell’Isola dei rifiuti. In seguito alla deportazione del suo cane da guardia Spots, un dodicenne di nome Atari Kobayashi, pupillo del sindaco, dirotta eroicamente un piccolo aeroplano e lo pilota fino all’Isola dei cani. Dopo il brusco atterraggio, viene soccorso da un branco di quadrupedi, disposti a tutto pur di sfuggire alla deprimente condizione in cui versano. Commossi dal coraggio e dalla devozione del ragazzino nei confronti dell’animale domestico smarrito, Chief (voce originale di Bryan Cranston), Rex (Edward Norton), Boss (Bill Murray), Duke (Jeff Goldblum) e King (Bob Babalan), si impegnano a proteggerlo dagli uomini che gli danno la caccia e scortarlo nel pericoloso viaggio che deciderà il loro stesso destino.

L’adulto che è in noi vede ne L’isola dei cani la rappresentazione di un possibile futuro prossimo o di un passato piuttosto recente (vi dicono niente le parole segregazione, deportazione, teoria del complotto?) sottoforma di fiaba. Cosa decisamente insolita se dietro la macchina da presa c’è Wes Anderson, che mai prima d’ora si era cimentato con il genere distopico. Ciò che invece non stupisce da parte del regista texano è l’uso indiscriminato dell’ironia. L’isola dei cani non fa soltanto pensare, ma soprattutto sorridere. E forse è questa la sua formula vincente.

Come nelle fiabe più classiche, ricorre anche in questo caso – oltre al tema della fuga – la netta divisione tra buoni e cattivi: i primi sono rappresentati dai cani e dai ragazzini (Atari e gli studenti pro-cani guidati da Tracy), mentre i secondi dagli adulti (il sindaco Kobayashi e Maggiordomo). Nonostante qualche eccezione (vedi i due scienziati alla ricerca dell’antidoto per l’influenza canina) e sebbene anche per i cattivi ci sia in fondo la possibilità di redimersi, non c’è spazio per sfumature psicologiche o personalità complesse; il film di Wes Anderson è totalmente a favore dei cani e di chi li ama. Ma questo era già evidente nel titolo originale Isle of dogs che, se pronunciato velocemente, diventa “I love dogs”.

Tale presa di posizione viene ribadita anche attraverso una scelta linguistica. Sia nella versione originale che in quella doppiata, gli esseri umani si esprimono nella loro lingua nativa, quindi in giapponese, mentre i cani in inglese/italiano. La scelta di non tradurre i dialoghi dei nipponici – se non in presenza di interpreti bilingui, studenti stranieri e strumenti elettronici come recita il cartello all’inizio del film – non è casuale: la barriera linguistica che si viene a creare sottolinea l’incomunicabilità tra i personaggi, e porta lo spettatore ad abbracciare il punto di vista degli amici a quattro zampe anche linguisticamente.

Ad un livello prettamente registico, inutile dire che ritroviamo le tanto care inquadrature simmetriche, dall’alto e dal basso, i carrelli laterali e gli zoom in avanti. Grazie all’animazione in stop motion, torniamo bambini e osserviamo tutto con uno sguardo più puro e meravigliato, dimenticandoci per un attimo dei riferimenti distopici. Inoltre, l’animazione rende il film ancora più poetico.

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L’Isola dei cani è una fiaba semplice, dove semplicità non significa banalità, bensì è sinonimo di “complessità risolta” (per usare le parole dello scultore rumeno Constantin Brâncuși): infatti, la tecnica con la quale la storia è presentata ai nostri occhi è tutt’altro che semplice, ma così ci sembra perché è stata realizzata con maestria. I valori d’amicizia e libertà vengono trasmessi con leggerezza, la quale, come diceva Italo Calvino, “non è superficialità, ma planare sulle cose dall’alto, non avere macigni sul cuore.” E infatti, L’Isola dei cani è un film che scalda il cuore.


Vi lascio la canzone da cui ho tratto la citazione riportata all’inizio dell’articolo. Con un titolo e un nome del genere, il nesso era inevitabile.