Phantom Thread – La recensione


2016 - 2019, Recensioni / venerdì, Febbraio 23rd, 2018

Nel suo Phantom ThreadPaul Thomas Anderson unisce il genere sentimentale al thriller psicologico.

Nella Londra degli anni Cinquanta, la casa di moda Woodcock, guidata dai fratelli Reynolds (Daniel Day-Lewis) e Cyril (Lesley Manville), veste gran parte delle donne dell’alta società. Nonostante il contatto quotidiano con il gentil sesso, Reynolds considera l’amore un privilegio precluso ad un artista del suo calibro, finché non incontra Alma (Vicky Krieps), che scombussola la sua vita ordinaria in veste di musa e amante.

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Phantom Thread è un film dai tempi dilatati ma personalmente non mi ha annoiata, ed anzi l’ho trovato avvincente anche nella sua lentezza. Inoltre, grazie alla combinazione tra melodramma e thriller, la suspense non manca, e rimanda ai film degli anni Cinquanta, in particolare al cinema di Alfred Hitchcock, il quale viene omaggiato da Paul Thomas Anderson anche attraverso alcune dissolvenze e inquadrature.

Phantom Thread ha una trama semplice e non molto ricca di eventi, ma allo stesso tempo è un’opera complessa, da leggere su più livelli, infarcita di simbolismi e riferimenti. La sceneggiatura, firmata dallo stesso Paul Thomas Anderson, è fatta di dialoghi apparentemente artificiosi, che in realtà rispecchiano perfettamente quel mondo fatto di riverenze e formalità di cui i Woodcock fanno parte.

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Reynolds Woodcock è prigioniero delle sue manie e della routine quotidiana; è un uomo poco accomodante e psicologicamente fragile, che si comporta spesso come un bambino, circondato però da donne forti, le quali fanno funzionare il suo mondo e corrono a salvarlo ripetutamente, come Cyril (chiamata dal fratello “cara spina nel fianco”) ed Alma in particolare, ma anche le meticolose sarte e le clienti affezionate.

“C’è un’aria di quiete e morte in questa casa” afferma Reynolds, e in effetti la morte viene evocata per tutto il film, a partire dalla maledizione su chi cuce gli abiti nuziali che li condannerebbe a non sposarsi mai (e i fratelli Woodcock sembrano aver fatto propria questa credenza popolare, rinunciando all’amore anche per la loro condizione di Artisti), passando dalla presenza ingombrante della defunta madre, sempre con Reynolds nelle fodere delle giacche o in sogno, ed arrivando infine allo stratagemma escogitato da Alma per mantenere viva – paradossalmente – la storia d’amore con Reynolds.

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Tutti i personaggi di questo film si fanno prima compatire e poi odiare, o viceversa; ognuno è sia vittima che carnefice, ma alla fine ciò che conta è trovare un equilibrio, sano o malsano che sia. Errori, debolezze, rinascite, tutto nella relazione tra Reynolds e Alma si ripete ciclicamente.

Phantom Thread sprizza arte ed eleganza da ogni fotogramma, senza tuttavia cadere nell’esercizio di stile. La colonna sonora di Jonny Greenwood, volutamente ridondante, aggiunge un tocco di classe alla già raffinata pellicola e costituisce un’opera indipendente, che si può ascoltare anche senza le immagini del film. I bellissimi costumi di Mark Bridges sono dei veri e propri coprotagonisti, perciò sarebbe doveroso premiarli con l’Oscar. Dispiace invece per la mancata nomination alla scenografia, altrettanto impeccabile e magnifica.

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Daniel Day-Lewis riesce a comunicare con poco tutte le sfumature caratteriali del suo tormentato personaggio, ed è talmente spontaneo che non sembra neanche recitare. A meno che l’attore smentisca il suo ritiro dalle scene, con questo film ha chiuso in bellezza la sua carriera. Lesley Manville, con quel suo sguardo quieto e gelido, risulta a tratti terrificante. Vicky Krieps interpreta in modo convincente un personaggio più dinamico, che da ragazza insicura diventa una donna caparbia e forte.

Amore, morte, superstizioni, ambiguità, ossessioni sono tutte intrecciate tra loro come la trama di un tessuto, e fanno di Phantom Thread un’opera profonda ed emozionante, che resta con lo spettatore anche giorni dopo la visione.

6 Commenti a “Phantom Thread – La recensione”

  1. credo che Desplat sia strafavorito, ma il suo tema è abbastanza accademico, a metà tra Yann Tiersen e il Morricone degli anni Novanta…
    mi piacerebbe che vincesse Greenwood, ma credo sia difficile…

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