The Place – La recensione


2016 - 2019, Recensioni / sabato, Novembre 18th, 2017

The Place è l’ultimo lavoro di Paolo Genovese (Perfetti Sconosciuti), presentato alla Festa del Cinema di Roma 2017. Il film vanta un cast molto ricco, composto da Valerio Mastandrea, Alessandro Borghi, Sabrina Ferilli, Giulia Lazzarini, Marco Giallini, Silvia D’Amico, Vinicio Marchioni, Silvio Muccino, Rocco Papaleo, Vittoria Puccini ed Alba Rohrwacher.

Un uomo misterioso (Valerio Mastandrea) esaudisce i desideri delle persone affidando loro in cambio un compito da portare a termine. Il luogo in cui l’uomo riceve le visite è il bar “The Place”, dentro il quale si svolge l’intero film.

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The Place è un film corale dove vengono portati alla luce i lati più oscuri e quelli più buoni di ogni essere umano. I 9 personaggi che si rivolgono all’uomo sono infatti disposti a fare qualsiasi cosa pur di veder svanire le loro preoccupazioni o di realizzare i propri sogni. Tramite le loro bocche ascoltiamo desideri di riconciliazione, di guarire o far guarire qualcun altro da brutte malattie, di (ri)trovare se stessi o l’amore, e via dicendo. Il personaggio di Mastandrea è una sorta di burattinaio che spinge i suoi interlocutori, pur non obbligandoli, a compiere gesti raccapriccianti ma anche altruistici; apostrofato come un mostro, un carnefice, si rivela essere diabolico al pari delle sue “vittime”, tanto che finisce per rivelare alla barista Sabrina Ferilli/Angela – nome quanto mai azzeccato – di essere stanco del male che le persone sono pronte a farsi a vicenda, ricordando il John Coffey de Il miglio verde.

– “Perché chiedi cose così orrende?”

– “Perché c’è chi è disposto a farle!”

Al tavolino del bar, assistiamo ad un susseguirsi di richieste e di compiti assegnati, intervallati dai resoconti delle azioni compiute, le quali non vengono mai mostrate ma appunto soltanto raccontate dai personaggi stessi. Azioni che assumono un senso e un contesto grazie ai dettagli forniti, che infatti Mastandrea incoraggia ad esporre e appunta sulla sua misteriosa agenda.

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Raccontare a voce alta le proprie scelte ha una funzione catartica: mette i personaggi di fronte a loro stessi, come in uno specchio, e li porta a riflettere sulla propria condotta.

La scenografia non è funzionale alla narrazione, i colloqui potevano svolgersi in qualsiasi altro luogo. Forse per questo il bar si chiama “The place”, un nome comune. Tuttavia, è proprio per l’ambientazione anonima che l’attenzione dello spettatore si concentra tutta sulle battute dei personaggi. Non so quanto Genovese abbia attinto dalla serie tv The Booth at the End e quanto abbia effettivamente aggiunto di suo pugno, ma la sceneggiatura è ben congegnata: non svela tutto e subito ma prosegue per frammenti, mantenendo la corda tesa per quasi tutto il film, anche dopo che lo spettatore ha messo insieme i pezzi del puzzle. Tutti i personaggi sono infatti in qualche modo legati, ed è il destino – forse – a decidere chi otterrà ciò che vuole e chi no.

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I movimenti di camera sono sostanzialmente assenti. Genovese ricorre ripetutamente al campo-controcampo e realizza numerosi primi piani sugli 11 attori, i quali procedono per sottrazioni, puntando sull’interiorizzazione delle emozioni e su espressioni quasi impercettibili. La regia viene quindi sacrificata per la messa in risalto della sceneggiatura e della recitazione che, ciononostante, in alcuni casi risulta un po’ artificiosa.

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In definitiva, The Place è un film con una sceneggiatura dalla forte impostazione teatrale, ma che funziona bene anche sul grande schermo. Peccato per il finale che lascia una sensazione di incompletezza, anche se forse non poteva essere altrimenti.

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