Sono finalmente riuscita a vedere Blade Runner 2049 e non potevo non spendere qualche parola su uno dei titoli più attesi dell’anno.
Blade Runner 2049 è un sequel che non risolve – o almeno, non del tutto – i misteri lasciati aperti dal primo film, ma che riprende i temi principali per consolidarli e svilupparli verso un senso più contemporaneo.
Ritroviamo infatti la questione dell’identità, seppur ribaltata rispetto al film dell’82. Se Deckard era un uomo che scopriva di essere un replicante (anche se ci sono ancora dubbi al riguardo), l’agente K (Ryan Gosling) sa di essere un replicante, creato appositamente per “ritirare” i vecchi modelli in circolazione, ma dopo una scoperta sconcertante e pericolosa, inizia a dubitare della sua natura, fino a credersi un essere umano. Sarà proprio l’incontro di K con il buon vecchio Deckard (un malinconico Harrison Ford) e altri replicanti a chiarire la sua identità e a fargli scoprire il senso della vita.
In Blade Runner 2049 torna ad essere centrale anche il tema dei ricordi. Ricordi che oggi, in maniera ancora più forte, sono labili, facilmente sottoposti a distorsione e dimenticabili. Con le nuove tecnologie, il concetto di memoria si è molto modificato: non c’è più bisogno di interiorizzare le informazioni, perché grazie ai nostri smartphone possiamo accedere continuamente e in ogni luogo a qualsiasi contenuto. Il film sembra criticare questo aspetto, quando si afferma che in seguito ad un blackout tutti i dati memorizzati nei computer sono andati persi. Per quanto riguarda i ricordi d’infanzia, Blade Runner e poi Blade Runner 2049 ci ricordano che possono essere impiantati nella nostra memoria, da alcuni “creatori di ricordi” nella finzione, tramite i condizionamenti nella realtà. I ricordi possono essere dunque falsi, derivati da suggestioni o vissuti da qualcun altro.
Prima che un film dai contenuti estremamente filosofici, Blade Runner 2049 è soprattutto un’esperienza visiva. L’occhio è l’organo sensoriale più stimolato, attraverso la fotografia di Roger Deakins e la scenografia di Dennis Gassner, entrambe sensazionali e che quasi certamente riceveranno una candidatura agli Oscar.
Lo stile di Deakins è riconoscibile nei giochi di luce: i personaggi vengono illuminati e messi in ombra subito dopo, trasformandosi in delle vere e proprie sagome nere.
Il paesaggio urbano è lo stesso del primo Blade Runner, mentre gli scenari nuovi sono caratterizzati da statue monumentali, interni sterili ma maestosi, ambienti incontaminati. K si trova spesso a camminare da solo in vasti spazi semivuoti.
Come nel primo film, i dialoghi sono inevitabilmente un po’ criptici, e la narrazione procede con un andamento lento, permettendo allo spettatore di immergersi totalmente nelle inquadrature spettacolari e di scoprire gradualmente la storia dell’agente K.
Lo sguardo è nuovamente anche un contenuto tematico stesso del film. Troviamo una perfetta rappresentazione dell‘Homo Videns, talmente assuefatto e stordito dalle immagini che non sa più distinguere tra realtà e finzione (in questo, la tanto chiacchierata inespressività di Ryan Gosling appare quantomai funzionale).
Centrale è infatti il rapporto sentimentale tra K e Joi (Ana de Armas), un ologramma programmato per soddisfare i clienti, dicendo e mostrando loro ciò che vogliono sentire e vedere. Joi non è altro che la proiezione dei desideri di K, il quale rappresenta l’uomo contemporaneo bisognoso di un sostegno per affrontare i dubbi esistenziali e le proprie insicurezze. Sebbene non sia una trovata così originale (già Her di Spike Jones presentava un personaggio simile), Joi è visivamente resa alla perfezione, ed è protagonista di una delle sequenze più stupefacenti dell’intero film.
Blade Runner 2049 è un sequel non necessario ma comunque rispettoso del suo predecessore. Da ricordare soprattutto come uno spettacolo di immagini.
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